DISPONIBILITÀ
di Sol.
Vi sono alle volte parole il cui significato ci sfugge a lungo, concetti che non riusciamo a comprendere. Si dice: perché non si è ancora maturi. Giusto. Però « essere maturi » è una condizione che può essere raggiunta molto velocemente se ci rendiamo capaci di comprendere alcuni presupposti fondamentali dell’Insegnamento.
L’Insegnamento metafisico, come del resto tutto l’insegnamento Yoga, non ha nulla in comune con nessun altro tipo di insegnamento, né lo strumento né i metodi né la disciplina.
Dei metodi e della disciplina ovviamente non spetta a noi parlare. Riguardo allo strumento, parleremo soltanto della sua parte più apparente, più sensibile, più grossolana: la parola.
Se al livello più alto l’insegnamento può essere considerato e realizzato come Brahman stesso, al nostro livello esso si trova a dover essere espresso con dense forme-parole che mai, in nessun caso, potranno per se stesse farci procedere di un solo passo. Esse sono soltanto veicoli per l’Energia che trasportano. Come veicoli, costituiscono un ostacolo per colui che vuole afferrarsi ad esse. Come sarebbe un ostacolo per la sua cura, l’ostinazione di un malato che volesse assimilare l’ago dell’iniezione anziché il medicinale iniettato per suo mezzo.
Se fin dal principio comprendessimo bene che non dobbiamo basarci sul significato apparente delle parole, che dobbiamo soltanto tenerle in conto di indicazioni e di veicoli, molte cose ci sarebbero facilitate, e molti conflitti risparmiati.
Ammettiamo che io abbia scelto di fare il « saltatore di fossi in salita» e vada alla ricerca di montagne da scalare a quel modo. Giunto in una valle dove sorgono molte montagne, cerco una guida che mi indichi quale di quelle montagne porta sui suoi fianchi fossati, come enormi gradini vuoti, fino alla cima. La guida mi dirà: tutte queste montagne sono fatte a quel modo che tu dici. Se vuoi scalare quella, ha pochi fossati ma larghi. La seconda ne ha molti, meno larghi ma profondissimi. La terza ne ha di ogni genere, larghi e stretti, ma tra l’uno e l’altro vi è appena lo spazio per posare un solo piede e prendere lo slancio per il salto successivo. Ma sei sicuro — mi potrà chiedere la guida — di volerlo proprio fare, di voler scalare montagne saltando fossi in salita? Hai abbastanza fiato per accingerti all’impresa? Certo, rispondo io, è quello il mio lavoro e anche il mio divertimento. Coraggio allora, e bada a saltar bene e a misurare le tue forze, che tu non abbia a cadere dentro quei fossi, mi potrà dire la guida.
Potrò ancora chiedere molte cose e avere risposta. La guida mi dirà come distribuire le forze nell’ascesa, come acquistare stabilità per non essere travolto nel pieno del salto da improvvise raffiche di bufera, come evitare le numerose insidie, quali tipi di belve posso incontrare e come trattare con ognuna di esse, e tante altre cose che io non avrei mai nemmeno pensato di chiedergli, ignorandone l’esistenza.
Bene, proclamandomi con tanta baldanza « saltatore di fossi in salita », posso a questo punto chiedergli di costruirmi un comodo ponticello su ogni fosso? O di saltare lui, portando me sulle sue spalle? Naturalmente no. Se lo faccio, non sono quello che mi dichiaro.
Ognuno di noi imboccando il Sentiero ha scelto di essere un saltatore di fossi in salita. I fossi sono quelli tra le parole e il loro significato tra le parole e le Energie che trasportano. Limitandoci a quest’ordine di passaggi i fossi sono quelli tra le nostre domande riguardanti il particolare e le risposte dell’istruttore che cercano di elevarci all’universale. La nostra domanda è la sponda del fosso su cui ci troviamo. La risposta ci indica la sponda opposta. Noi dobbiamo fare il salto — sempre in salita — per approdare di là.
Comprendendo questo scopriamo subito che in realtà, durante il salto, non ci troviamo nel vuoto, ma siamo saldamente sostenuti da un solido anche se invisibile ponte, un ponte reale. La nostra aspirazione, per imperfetta che sia, è parte di quella stessa Energia che viene portata a noi dall’istruttore, si incontra con essa, vi si fonde, e il salto in realtà diventa un semplice traghetto.
Quando in seguito comprenderemo anche che cos’è quella Energia, e come in realtà non sia mai stata divisa, lo stadio del ponte sarà passato per noi perché avremo le ali. Anzi, saremo volo.
Imboccando il Sentiero, quindi, ognuno di noi ha scelto di fare questi salti in salita, poiché non esiste Sentiero che non sia fatto a quel modo. Accettiamo allora totalmente, con quella fermezza di direzione, con quell’unità di proposito che è amore, il fatto che per tutti i discepoli, e per il discepolo dell’advaita-Vedānta in particolare, ogni gradino è fatto di un gradino mancante.
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Le parole-forma dell'istruttore, qualunque sia la verità che esprimono in apparenza, sono soltanto una base che ci permette di prendere lo slancio per approdare « di là ». Forse le prime volte non saremo in grado di farlo istantaneamente: non importa, lo faremo più tardi, fra qualche ora, domani. L’importante è non fermarsi su quel significato apparente. Assimilarlo sì, farlo nostro sì, ma solo come si fa nostra per un momento, saggiandone col piede la stabilità, la pietra dalla quale dovremo spiccare il salto. Se la pietra non è ben salda — quindi nostra, come se facesse parte del nostro corpo — cadremo nel fosso insieme con essa, e la sua compagnia non ci sarà di nessun aiuto. Ma una volta spiccato il salto, chi mai cerca di trattenere nella mente il ricordo di quella pietra?
Nessun insegnamento è finito, concluso in se stesso. Ogni insegnamento, ogni verità, per alta che sia, offerta dall’istruttore, è solo un’indicazione: « fosso da saltare ». « Gradino fatto di un gradino mancante ». « Più in alto c'è una visione più ampia, una verità più alta ». « Procedi. Non fermarti. Salta! ».
Nello stesso momento in cui comprendiamo questo l’Energia condotta a noi dalle parole-veicolo dell’istruttore diventa quel solido ponte al quale possiamo abbandonarci con totale sicurezza.
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Quando noi poniamo a chi ci insegna i nostri quesiti, quando chiediamo di essere aiutati a risolvere un problema, a superare un ostacolo, a comprendere qualcosa, dobbiamo aver ben presente che la risposta che otterremo e un gradino mancante. Se lo comprendiamo e lo accettiamo, se sappiamo riconoscere questo significato profondo della nostra difficolta attuale, della domanda che ne sorge, della risposta che avremo e del collegamento fra questi tre elementi, già questo significa essere maturi, perché ci rendiamo disponibili.
Il nostro io del momento ha poca importanza per la nostra stessa Anima, e non ne ha affatto per l’Universale. La Vita non conosce vuoti, se qui ora non ci fosse il mio io, la Vita non ne sentirebbe la mancanza, Essa rimarrebbe sempre ugualmente integra e piena anche senza di me.
Quando noi facciamo domande, abbiamo problemi e chiediamo aiuto, la difficoltà è sempre dell’io.
L’advaita Vedānta si occupa unicamente dell’universale. Lo Istruttore è l'Universale che scende verso l’uomo per elevarlo a sé pervadendolo di sé. Verso l’uomo in quanto Discepolo, si intende, non certo verso l’io.
Basta osservare queste due posizioni perché la stessa mente concreta-distintiva veda questo primo salto da fare, questo primo gradino mancante, che dev’essere superato con le nostre sole forze. Il primo lavoro deve sempre essere cominciato dal basso e ognuno di noi lo deve fare per sé. Le domande dell’io possiamo tranquillamente lasciarle a casa, l’istruttore è qui per le domande del Discepolo. Sarà poi il Discepolo a vedersela col suo io e tanto meglio lo potrà fare quanto più sarà stato capace di dimenticare l’io e di essere solo Discepolo.
Questa Via e fatta di gradini vuoti, noi abbiamo accettato questa Via così come senza pretendere di cambiarla, noi chiediamo che quei gradini ci vengano porti. L’Istruttore ce li porge e ci porge insieme il modo di superarli.
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Quando finalmente comprendiamo e ci rendiamo disponibili, comprendiamo anche quanto sia sicuro e amorevole quel ponte invisibile che ci eleva senza fatica di quota in auota quando. E quindi ostacoli, difficoltà, problemi diventano i benvenuti quando si presentano. Sono i paracarri che segnano il percorso, e che uno dopo l’altro ci lasciamo alle spalle. Ci preparano a incontrare quella preziosa indicazione, « fosso da saltare » che saranno le parole di chi ci guida.
Consideriamo per un momento per quante volte quelle parole sono state da noi ritenute solo in quanto forma, parole-forma. Quanti nostri problemi sono rimasti insoluti e ci tormentano ancora perché non siamo stati disponibili a quello che ci è stato detto in proposito? Quante volte è accaduto che non abbiamo trovato nessun aiuto nell'Insegnamento, solo perché volevamo una piccola risposta al nostro piccolo problema? È questo che pretendiamo, che l’Universale si abbassi al particolare, e al nostro particolare.
Possiamo provare a farci una specie di tabellina che ci ridia il senso della giusta prospettiva quando ci accorgiamo che lo stiamo perdendo.
Le parole-forma dell’insegnamento e dell’istruttore, sia che si tratti di insegnamento nuovo che di risposte ai nostri problemi, sono sempre l’indicazione di un gradino mancante da salire, di un fosso da saltare, di un’espansione da realizzare.
Quando ci apriamo ad esse, dimenticando almeno temporaneamente l’io, e le lasciamo affondare nella nostra coscienza con vera buona volontà, con vera aspirazione, con unità di proposito, esse diventano il veicolo, il ponte che ci porterà di là.
Quando le comprendiamo, si compie una unificazione, e siamo noi stessi quel ponte e quel veicolo.
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Non siamo disponibili quando teniamo ferma nella mente la nostra domanda che, sempre, riguarda il particolare. Basta questo a chiudere il canale. Per tutto ciò che ci e stato detto prima di porre la domanda che ci preoccupa, noi non siamo stati disponibili. Quando la avanziamo, ci aspet- tiamo la risposta a quel livello che vogliamo noi, e per la risposta piu ampia, che include anche il nostro intero problema, non siamo disponibili. Per il resto della lezione, convinti di non essere stati capiti, sempre occupati dal problema e, persino, dall insoddisfazione, e in più ancora da un certo panico che può coglierci, non siamo disponibili.
Perciò è di fondamentale importanza capire, ma capire davvero, che quando facciamo una domanda o sottoponiamo un problema a chi ci guida, siamo compresi ancor prima che apriamo bocca. L’Istruttore vede il nostro problema prima che ne parliamo, conosce le nostre domande, le nostre istanze, i nostri timori. Ed è lì pronto a porgerci la nota superiore che noi dobbiamo esser pronti ad afferrare, il gradino superiore che dobbiamo salire, quel gradino apparentemente fatto di uno scalino mancante. L’Istruttore ci dice, in sostanza: tu, con questo tuo problema, stai al pianterreno. L’Insegnamento adatto per risolvere non solo quel problema, ma tutti gli altri dello stesso ordine e classe, e non solo tuoi, sta qui, al secondo piano. Ma attenzione, il primo piano manca, non c’è. Il secondo piano è a tua disposizione, qui c’è tutto ciò che ti serve per risolvere tutti i problemi del pianterreno. Ma per venire qui devi volare.
Tutto ciò molte volte lo dimentichiamo, e molte volte non lo sappiamo affatto. Nasce così la figura molto diffusa dell’aspirante o del discepolo convinto di non essere capito. Fin che continuerà a pensarlo, quel discepolo non sarà disponibile.
Intanto continuiamo a tenerci ben stretto il nostro problema, la nostra domanda per la quale « non abbiamo avuto risposta », che si cristallizza e fa blocco coi propri simili che sempre coesistono nella nostra psiche. Continuiamo a dissipare l’energia divina nutrendo con essa i nostri contenuti, poi li guardiamo e ci spaventiamo dando loro così nuovo cibo; e non solo non siamo disponibili, ma diveniamo ciechi e sordi. Siamo convinti di progredire perché facciamo con impegno i nostri esercizi, ci sforziamo di fare sempre il meglio e pensiamo tanto al Sé, all’ātman, a Brahman. Appunto, ci pensiamo tanto che non ci resta il tempo per esserlo.
Cerchiamo allora di rompere questa circonferenza. Le risposte che ci vengono date contengono sempre la visione più ampia necessaria per noi in quel momento, e il nostro problema è sempre il rivelatore di questa necessità. Se chi ci insegna acconsentisse — per inconcessa ipotesi — a intrattenersi con noi al nostro pianterreno, ci precluderebbe l’accesso ai piani superiori, e certo non è questo che possiamo volere. Qualsiasi altro tipo di insegnamento può farlo, non lo Yoga-vedānta.
Tentando di schematizzare la relazione Insegnamento-Istruttore-Discepolo, vediamo che:
È sempre l’anima che si porta sul Sentiero quando il momento è venuto.
È sempre l’io che ha i problemi, che pone le domande, che non è soddisfatto e vuole esserlo.
Uscire dall’io è il primo lavoro dell’aspirante, perché soltanto uscendo dall’io potrà avere accesso all’insegnamento.
L Istruttore risponde sempre all’Anima, mai all’io.
Nella risposta dell’istruttore, se siamo disponibili, troviamo tutto ciò che ci serve per i problemi dell’io.
Quando non comprendiamo la risposta o l’insegnamento in genere, significa che abbiamo abbandonato il nostro piano, siamo traboccati nell’io, siamo soltanto io, e l’io non potrà mai comprendere ciò che non è fatto per lui.
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Noi abbiamo bisogno di visione. Se avessimo bisogno di ingegneria, non potremmo certo passare dalla matematica elementare al calcolo del precompresso saltando gli stadi intermedi, quindi l’ingegneria ha tanti gradini ben vicini uno all’altro, ben solidi, da salire uno per uno.
La visione non è ingegneria. La visione non è fatta di gradini, è fatta di voli. Di espansioni. Di amore. Se vogliamo la visione dobbiamo seguirne le relative leggi.
Io vado dall'istruttore col mio piccolo problema, che significa visione ristretta. L’Istruttore mi offre la visione più amnia. Devo aprirmi a quella, dimenticando completamente il mio problema, ma cercando di afferrare la connessione tra quel problema — distaccato da me — e la risposta avuta.
Aprendomi a questa visione più ampia mi metto nell atteggiamento giusto per ampliare la visione in me. Con ciò non solo il mio piccolo problema verrà automaticamente risolto ma mi dispongo quale strumento per aiutare i miei simili, prima o poi, a risolvere quel tipo di problemi.
Inoltre, con questo atteggiamento, cambia qmdeosa nel nostro meccanismo di comprensione, che cominciai a funzionare con un ritmo diverso, permettendoci di comprendere veramente ciò che ci viene insegnato.
Fin che non abbiamo questa disponibilità, vi sono in noi, immancabilmente, autocompatimento, separatività, egoismo, criticismo, non ancora risolti. Sono compagni inseparabili detta non disponibilità. Dobbiamo cercarli e accingerci all'opera di soluzione, facendo bene attenzione a non permetter loro di provocare in noi turbamenti o scoraggiamento. Perché questo non accada, il segreto è accettarsi. Accettare le proprie momentanee limitazioni con serenità e distacco, e possibilmente con un po' di umorismo. Elevarsi almeno un poco al di sopra dell'io e vederlo, vedere proprio quel piccolo io alle prese con cose tanto più grandi di lui, che non gli competono. Lui vorrebbe capire, lui vorrebbe fare, lui vorrebbe volare, ma di quello che è suo compito specifico non si preoccupa. Crede di dover essere lui a sorvolare gli abissi e trema: non ha ancora capito che non è a lui che tocca. Tocca a me Presenza, e purché quel piccolo io laggiù non si intrometta, non c'è abisso che, in quanto Presenza, non possa superare.
Quando arriviamo a comprendere ciò che veramente significa essere disponibili, dipende solo da noi essere maturi per il passo successivo, e in che misura esserlo. Essere disponibili significa ben di più che essere maturi, significa capacità costante di maturazione. In verità e realtà, essere disponibili significa essere già oggi ciò che saremo domani.
VIDYĀ - Periodico mensi.le - Anno II - N 2 - Febbraio 1974 Spedizione in abbonamento postale - Gruppo III - 70%