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D. Nella Māndukya Upanisad viene enunciata l’identità fra Micro e Macrocosmo. Cos’è, invece, che fa sì che le due "dimensioni" appaiano separate? O meglio: diciamo che a livello fisico riesco a capire che questo corpo fa parte della Natura, intesa come un Tutto unico e prova ne sono gli scambi continui di sostanze fra il corpo e l’ambiente. Per cui intuisco che Visva è Vaisvānara, osservato da un punto di vista individuale. Ma a livello mentale-sottile mi è difficile vedere la stessa identità, non riesco a percepire gli ipotetici scambi fra la mia anima e l’Anima del Mondo.

 

R. In effetti, fra ciò che tu chiami "Anima del Mondo", o Mahat, e la mente individuale vi è in ogni momento un fittissimo scambio di "sostanze", proprio come fra il corpo fisico e la natura: continuamente noi attingiamo dal Mahat le idee. Il problema è che l’ego pensa di potersene impadronire. L’io pensa di esserne l’autore e di poterle, quindi, trattenere in sé. Così facendo, riempie di sottoprodotti mentali il suo serbatoio, che noi chiamiamo subcoscienza. L’ego agisce nei confronti delle idee, così come agisce nei confronti degli oggetti fisici. L’io cerca di sottrarre al Mahat i contenuti sottili così come cerca di sottrarre al piano fisico gli oggetti grossolani. Se abbandonassimo l’ego la nostra subcoscienza svanirebbe e vi sarebbe un fluire libero delle idee dal Mahat attraverso di noi. Questa, infatti, è la condizione del Liberato.

 

D. Un Liberato è privo di manas?

 

R. Non proprio. Il manas, infatti, è l’unico mezzo che ha per contattare questo piano di coscienza e svolgervi eventuali attività spontanee, cioè libere e in completa sintonia con il Tutto.

 

D. Allora vede la molteplicità...

 

R. Non è che il Liberato sia cieco. Egli è privo di ego, non privo di mente. La differenza sta nel fatto che noi siamo impulsati e costretti ad allacciare una relazione con gli oggetti che percepiamo, il Liberato no. Mentre la mente egoica interagisce con l’oggetto tramite l’attenzione automatica, sia essa costituita da istinto, sentimento o pensiero, la mente del Liberato resta priva di modificazioni in presenza di qualsiasi oggetto. Il Liberato non perde mai la coscienza dell’unità del tutto.

 

Cerca, comunque, di portare con te la consapevolezza che, come questo corpo non appartiene a un "io", così anche le idee non sono "tue". Porta questa visione con te, ricordatene nei tuoi rapporti con gli altri. Lascia che questa idea trovi stabile dimora nel tuo Cuore. È questo, infatti, che si intende con "realizzare ciò che ho imparato".

 

D. In altre parole tutto è Uno. Ma cosa vuol dire "tutto"? Lo stesso problema di comprensione sorge con la frase "Tu sei Quello": cosa si intende con "Tu"?

 

R. La Gitā dice:

«Sappi che Io sono il Conoscitore del campo di tutti i campi».

Dal nostro punto di vista noi diciamo "Lui è il Conoscitore", ma l’Eterno, dal suo punto di vista, non vede i "molti campi". Ovunque Lui guardi, vede solo Se stesso. Noi cerchiamo solo di concepire Prājña dal nostro punto di osservazione dualistico, creandoci una visione, un’ispirazione-seme, per preparare la nostra coscienza ad abbracciare i più elevati piani dell’Essere.

 

D. Non ti comprendo anche perché se ti comprendessi sarei io stesso a quel livello coscienziale.

 

R. Senti cosa dice Hermes Trismegisto nella sua "Tavola Smeraldina": «Quello che è sotto è uguale a quello che è sopra, e quello che è sopra è uguale a quello che è sotto, per l’adempimento dei miracoli della Sostanza Una».

 

D. L’identità del Tutto con l’Uno è qui proclamata! Una coscienza onnicomprensiva che, conoscendo ogni campo, non vede differenza tra i campi.

 

R. L’insegnamento dice anche: non concettualizzare i contenuti, osserva senza entrare nella discorsività pensativa. Ricorda che la prima qualificazione del discepolo è la pazienza.

Sadhana 

 

D. Ho cominciato a "vedere" l’unità delle cose nelle mie azioni di tutti i giorni. Intravedo un miglioramento generale della mia vita. Intendo dire che forse comincio ad avere coscienza dell’unità che sottende a tutte le azioni della mia giornata. Non più tante azioni diverse, tanti "io" diversi, tanti obiettivi diversi, bensì un solo scopo in tutte le azioni: osservarmi, purificarmi, ritrovarmi in ogni cosa. Credo sia un momento molto delicato, ma infinitamente bello.

 

R. Sono d’accordo con te. Hai qualcosa da chiedere?

 

D. Sì, sulla Māndukya Upanisad. Come posso interpretare e approfondire la relazione tra i mātra e i tre livelli, Vaisvānara, Tajasa e Prājña?

 

R. Per "comprensione di Vaisvānara", il cui māntra è "A", si intende la realizzazione coscienziale dell’unità che sottende a ogni aspetto particolare di Vaisvanāra stesso. Il discepolo deve, cioè, abbandonare quel manas che continuamente ci pone di fronte l’"altro".

 

D. Come può, tuttavia, la mia coscienza estendersi fino al punto di comprendere in sé anche ciò che è non cosciente, ad esempio i sassi, le montagne o il mare?

 

R. È sempre il manas ad assumere automaticamente che alcune cose, sul piano vibratorio "A", sono prive di coscienza. Anche nel sogno vi è un ego manasico che percepisce oggetti non coscienti, i quali sono però della sua stessa sostanza, essendo esattamente la stessa causa efficiente: la mente sognante, sostrato sia dello spettatore che dello spettacolo.

 

D. Questo vale anche per il piano vibratorio "U"?

 

R. Sì. Inoltre chi realizza Taijasa realizza anche Vaisvānara, poiché quest’ultimo è compreso nel primo. E colui che realizza Prājña comprende entrambi i precedenti stati vibratori poiché "Prājña è la condizione conoscitiva degli altri due stati".

 

D. Lo yogi può avere esperienze nell’universo sottile, così come noi ne abbiamo nell’universo fisico?

 

R. Sì, poiché Egli può separarsi dal veicolo di contatto di questo piano vibratorio ed esperire la realtà sottile con i sensi del corpo "astrale". Ciò non è tuttavia necessario. D’altro canto, se il sādhaka "si trova", si realizza, come entità cosciente, trascendente e silenziosa, egli comprende tutti gli stati in cui può manifestarsi l’Essere supremo, l’OM senza suono. In ogni caso la realizzazione di ognuno dei tre stati non si attua sul piano individuale, bensì universale. Nota, infatti, che l’Upanisad non parla mai di un "io" che sperimenta i vari piani; il soggetto dell’esperire, colui che comprende l’unità sostanziale di Vaisvānara, è Vaisvānara stesso che è "cosciente degli oggetti esterni". Ciò vale anche per gli altri due stati vibratori. Non v’è un ego che li realizza quali oggetti, essi sono conoscibili solo per identità coscienziale.

 

D. Non v’è contraddizione tra il V e il VI sutra? Nel VI appare chiaro il senso della molteplicità, dove dice: «...la sorgente del tutto, in Esso si originano e si dissolvono tutte le cose». Nel V sutra, invece, pur parlando dello stesso piano coscienziale, si dice: «...ogni cosa resta indifferenziata, in verità è un’unità di pura coscienza».

 

R. Non mi sembra vi sia contraddizione. Nel VI sutra ogni idea di molteplicità è risolta nelle parole «in Esso originano e si dissolvono tutte le cose». Con questa descrizione del movimento cosmico l’Upanisad intende che ogni molteplicità è apparente, poiché ogni ente cade in Prājña, è compreso in esso, identico a Lui come sostanza. D’altro canto, non sarebbe possibile altrimenti: il serpente non "emana" dalla corda, è bensì la stessa corda così come può apparire da una determinata angolazione.

 

D. Qual è la differenza tra Prājña e Turiya?

 

R. La differenza è sostanziale: in Prājña non vi è percezione illusoria, ma nemmeno conoscenza della Realtà. Turiya, invece, è la Realtà stessa. Il discepolo, comunque, deve realizzare l’unità di coscienza fra i tre stati, in modo che vi sia un solo Conoscitore.

 

D. Cosa deve cercare di fare, dunque, il sādhaka dal lato pratico?

 

R. Innanzi tutto deve cominciare la sādhanā con ordine, tutte le indicazioni di carattere pratico sono esposte molto chiaramente nei primi sutra dell’Aparoksānubhuti e del Vivekacudāmani. Leggiamo, ad esempio: «Per raggiungere la Liberazione occorre realizzare i quattro mezzi: viveka e vairāgya, le sei qualità e l’intensa aspirazione». Questi quattro mezzi, spiega il III sutra dell’Aparoksānubhuti, «sono acquisiti dai discepoli con il praticare l’austerità, i doveri inerenti al proprio stadio di vita e all’ordine sociale». Aggiunge il Maestro: «I doveri inerenti al proprio stadio si riferiscono ai quattro āsrama: bramacārin (studente), grhastha (capo famiglia), vānaprastha (anacoreta) e samnyasin (rinunciatario totale). I doveri dell’ordine sociale riguardano i quattro ordini sociali: brāhmana, ksatriya, vaisya e sudra». Ecco, la prima cosa da fare è costruire questa base. Dobbiamo metterci al giusto posto per poterci muovere sul sentiero agevolmente e con la sicurezza di non sbagliare. Per esempio: quale può essere il mio ordine sociale? brāhmana? Non direi. sudra? Nemmeno. Vaisya? No, non sono portato ad accumulare ricchezze. Io combatto le mie imperfezioni, giorno dopo giorno, senza tregua: ecco dunque uno ksatriya! Quale può essere, quindi, il mio dovere? Dominare le mie energie vitali, studiare le Scritture, ottenere una mente calma, tanto da poter giungere un giorno a decidere con serenità quale strada seguire. L’importante è che tu ti metta con le spalle al muro, subito. Non dobbiamo scegliere una via magari solo perché ci piace l’idea. Dobbiamo metterci con umiltà al nostro posto.

 

D. Che cos’è la vera umiltà? Non penso sia un continuo cospargerci il capo di cenere.

 

R. Infatti, non lo è! L’umiltà è conoscere il proprio stato, vivere la propria condizione, muoversi nel proprio livello di coscienza e usarne tutte le potenze. Solo così siamo liberi di agire con sicurezza. Se siamo al nostro giusto posto ciò che facciamo è volontà del Principio e possiamo realmente usare tutte le potenze del nostro stato. Medita profondamente questi primi sutra dell’Aparoksānubhuti, cerca di capirne il significato più profondo con il Cuore, e il Cuore dirà poi alla mente come comportarsi.

 

D. Noi solitamente facciamo esattamente il contrario: lasciamo che sia la mente a condizionare il Cuore.

 

R. Noi dobbiamo liberarci dall’ego, perciò il nostro modo di studiare, leggere e approfondire le cose è diverso. Così è anche diverso il nostro modo di capire. Leggiamo ancora: "Mèta ultima dell’individuo è la comprensione di sé in quanto Unità Integrata". Ecco, dobbiamo capire che cosa significa "Unità Integrata". Ripetiamo queste parole nel Cuore, lanciamo questa frase in alto, oltre noi stessi, in attesa di ricevere una risposta. Questa è meditazione. L’aspirante discepolo studia in questo modo finché non realizza quella maturità che rappresenta l’obiettivo del suo lavoro: è questo "il dovere inerente al proprio stato".

 

D. Può essere utile meditare su di un aspetto personale del Divino?

 

R. Nella pratica non è necessario ispirarsi all’immagine di un Dio Personale. È invece indispensabile la rinuncia ai frutti dell’azione che conduce a una rottura di livello, a un superamento dell’ego. Questo superamento ci porterà ad essere Coscienza Impersonale e deve essere il nostro costante proposito. Il Dio Persona altro non è che l’Isvara immanente, mentre il Dio Principio-Impersonale è l’Isvara trascendente, che resta al di là dei suoi effetti-creazioni, come il sole resta al di là della vita terrestre, pur essendone la causa efficiente.

 

D. L’abbandono dei frutti dell’azione è la pratica del Karmayoga?

 

R. Esattamente. Il Karmayoga permette di conseguire le qualità iniziatiche per praticare con efficacia lo Jñānayoga. L’azione rappresenta, a questo livello, una continua meditazione, un vero esercizio di consapevolezza, una costante verifica del nostro grado di realizzazione. È importantissimo comprendere i nostri moventi profondi per smascherare l’io che cerca, invece, di nascondersi nell’azione automatica. Non è detto che la comprensione debba realizzarsi proprio mentre si compie l’azione: può accadere a sera, ripensando alla giornata, oppure in un qualsiasi altro momento, anche a distanza di molto tempo. Comunque vorrei sottolineare che la riflessione sui moventi dell’azione è più che un semplice esame di coscienza: è vera ricerca, vicāra. Il Maestro Shankara specifica chiaramente che lo scopo del Karmayoga è purificare il discepolo, in modo che egli possa, in seguito, padroneggiare le qualità iniziatiche fondamentali e praticare vicāra, giungendo alla conoscenza-jñāna.

 

D. Puoi espormi, in sintesi, la relazione che esiste tra le sei qualità mentali?

 

R. Le sei qualità esposte dal Vivekacudāmani sono veramente di grande importanza per l’aspirante discepolo.

 

Perfezionando anche solo una di esse, tutte le altre cinque vengono perfezionate. Per l’aspirante che pratica il Karmayoga, titiksa (pazienza perseverante) è basilare e conviene senz’altro farne seme di meditazione. Sraddhā (fede) è frutto di discriminazione e non di credulità: è fede-certezza, permeata di conoscenza intuitiva. La calma mentale (©ama), l’autodominio (dama) e il raccoglimento interiore (uparati) vengono sviluppate con la "coscienza osservante", una tecnica utilissima per chi si trova sul piano dell’azione.

 

D. Come possiamo sintetizzare in poche parole il lavoro, anzi l’Opera, dell’aspirante discepolo?

 

R. Fratello, non si tratta ancora dell’Opera sublime, è tuttavia l’inizio di un sentiero senza ritorno. Tu sperimenti la sottile ebbrezza di colui che, man mano, sta abbandonando i propri fardelli psichici per potersi ritrovare più libero, più "vero".

 

Dobbiamo cercare di far luce nei nostri pensieri. Non è niente di speciale: è nella natura dell’essere umano. Non è un lavoro da specialisti, è un lavoro da uomini. Come noi.

 

 


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